Beatrice di Borgogna e Federico Barbarossa

Nell’autunno del 1157 Beatrice e Barbarossa furono a Villareggia, ce lo dicono le fonti storiche ed i documenti. Ma la vita di Beatrice ed i suoi pensieri in quei giorni villareggesi… questa la dobbiamo immaginare, come in una bella favola con tutti i suoi ingredienti: un re, una dolce collina, un po’ di magia e… ovviamente una splendida principessa!

Bello d’aspetto, con gli occhi grigio azzurri incorniciati dai capelli color bronzo e dall’inconfondibile barba, di statura alta e di portamento fiero: così si presentava Federico I di Hoenstaufen, famoso come “il Barbarossa” nell’autunno del 1157 mentre cavalcava, insieme al suo seguito, alla moglie Beatrice, al prezioso alleato Marchese di Monferrato, verso il possedimento che l’amico Guidone di Biandrate aveva presso la Dora. Finalmente, pensava, questa bella e verde Italia, dal clima mite e dalla cacciagione abbondante, gli avrebbe dato momenti di festa e allegria: la caccia, il vino, la buona compagnia era quello che si aspettava.

Ormai dietro le spalle i giorni difficili e sanguinosi dell’assedio di Tortona e della sua discesa su Roma, Federico pensava che finalmente la sua giovane, colta e bella moglie, la delicata Beatrice di Borgogna, avrebbe potuto trovare un po’ di pace e tranquillità. L’aveva portata con se, non voleva separarsene: era una donna straordinaria, pensò l’imperatore. Beatrice non l’avrebbe però seguito nelle battute di caccia, passatempo che non le si addiceva: lei leggeva i classici, amava la conversazione e le arti. Beatrice sarebbe rimasta dai Biandrate, sulle rive della Dora Baltea. Si avvicinava l’inverno, ma il sole era ancora caldo: la chiamavano “estate di San Martino”, quella manciata di giorni di novembre in cui il freddo si attenua e la pelle si scalda, e la sua giovane sposa avrebbe tratto giovamento dall’aria fresca e dalle lunghe passeggiate nei boschi. Questo pensava Federico, mentre si avvicinava a cavallo all’odierna Villareggia.

Fu un momento felice quello dell’imperatore a Villareggia: ancora di là da venire i momenti delle guerre con Milano e la terribile battaglia di Legnano, ancora vivo il sogno dell’Impero unito, di sè stesso come un novello Carlo Magno, a capo di un impero su cui non tramontava mai il sole. Fu diversa questa sua permanenza nelle nostre terre rispetto al resto dei suoi periodi in Italia: l’amicizia, l’arte della caccia, l’amore per la giovane moglie e per la vita riempivano i suoi pensieri.

Grande e forte il Barbarossa: a lui e al suo passaggio si deve il nome di Villareggia, Villa Regia, secondo una storia che ci raccontano i nostri vecchi. Affamato e stanco dopo una battuta di caccia, chiese ad una donna del borgo di preparargli da mangiare. La donna, onorata della richiesta dell’imperatore, mise insieme una cena con quello che trovò in casa: alcune uova e un po’ di salame. Preparata una frittata, la offrì a Federico che esclamò: “Fantastica! Questa Villa è degna di un re, è Villa Regia”.

Un uomo importante, forte, che la Storia celebra e ricorda. Noi raccontiamo invece la storia di Beatrice, la principessa di Borgogna, quasi ventenne, che lo seguì a Villareggia quell’autunno del 1157.

Beatrice era bionda, minuta, bella e delicata a vedersi, ma forte, determinata, colta e di spirito. Amava circondarsi di dame e cavalieri con cui avere conversazioni brillanti: arte, letteratura, perfino la politica e il tormentato periodo che stava vivendo l’impero la interessavano. Seguì Federico in Italia, quell’autunno, per stargli vicino in un momento di gioia, pur sapendo che la caccia l’avrebbe subito attirato nei boschi, su per le colline, in compagnia dei nobili amici, dei cavalli, dei cani. A lei non piaceva quel Federico a cavallo, l’imperatore fiero. Gli piaceva guardarlo negli occhi e parlare, gli piacevano le sue idee e la sua forza. Era stata fortunata, pensava spesso: questo marito non l’aveva scelto lei, ma se ne era innamorata subito.

Arrivati nel piccolo borgo vicino alla Dora Baltea Federico era subito ripartito insieme al Marchese del Monferrato per cacciare, e lei aveva cominciato ad esplorare quelle terre di contadini gentili e dal sorriso aperto. Riusciva perfino a capire il loro dialetto, assomigliava un po’ al suo, lei che proveniva dalla francese Borgogna, dove il latino ufficiale lasciava spazio al volgare “d’oil”.

Il sole era caldo, ma l’aria era pungente, e la notte faceva molto freddo. Beatrice era strana in quei giorni, quasi più felice del solito, anche se sentiva la mancanza del marito. Un giorno, guardandosi allo specchio, ebbe l’intuizione di cosa le stesse succedendo: osservò il suo viso e le sembrò più paffuto, e la veste le pareva ora stretta e… Un bambino. Un erede, un principe, un futuro imperatore. Era felice, aveva voglia di abbracciare Federico e raccontargli tutto.

Nei giorni seguenti cominciò a temere per il bambino, per le guerre che lo avrebbero atteso da grande, e si incupì. Aveva sempre più freddo la notte, e si svegliava in preda agli incubi. Si scoprì a desiderare una figlia, una bambina con gli occhi azzurri senza un futuro di guerriero: la guerra è affare degli uomini, inutile e pericolosa.

Il giorno dopo, appena fu chiaro, indossò il mantello e, facendo attenzione a non svegliare le sue dame di compagnia, uscì nella nebbia del mattino. Dove il sentiero imboccava la collina vide del fumo e, avvicinandosi, accanto ad una vigna ormai spoglia notò una capanna di legno, e davanti ad essa un uomo, che alimentava un fuoco da cui sprigionava un profumo forte di menta e di rosmarino.

Un po’ intimorita si avvicinò: l’uomo la guardò, sorrise, e le fece un cenno. Beatrice guardò il fuoco, dove ardevano degli sterpi, intrecciati a corona. L’uomo stava versando sulla fiamma il contenuto di piccoli sacchetti di erbe, e Beatrice provò a chiedere, nella sua lingua, cosa fossero. L’uomo sorrise ancora, e le disse in quello strano piemontese che però le parve così chiaro da comprendere, che si trattava di un rito dell’autunno, un modo per scacciare il freddo, la paura e il buio, e preparare il ritorno della lontana primavera. Versava le erbe seccate, colte l’anno precedente, come dono per la natura, prodiga di regali per tutti gli uomini.

Beatrice rimase colpita da quel fuoco, e dagli occhi gentili dell’uomo. Che bella gente in questo paesino: mite ma non sottomessa, umile ma con una grande forza, un’oasi calorosa e ospitale di occhi amici in mezzo a questo mare di nebbia. Lo salutò e tornò indietro, quasi correndo: scivolò nel letto un attimo prima di sentire le dame muovere i primi passi del mattino.

Nei giorni seguenti Beatrice sentiva ancora i timori per il futuro, per il bambino, per il Re.

Ripensando all’uomo della collina, si rivolse a Guidone di Biandrate, il suo ospite amico del marito, il quale aveva promesso di occuparsi di lei. Gli chiese di poter invitare la popolazione per una festa intorno al fuoco, per scaldarsi, per conoscere questo popolo e per festeggiare la sua presenza. Un po’ stupito per questa richiesta, Guidone accettò. Beatrice gli chiese di assicurarsi che ci fosse l’uomo della collina: le trasmetteva fiducia, un senso di pace, quasi fosse un fratello, un amico di vecchia data.

Guidone fece le cose in grande: ci furono balli, canti e danze. Venne allestito un fuoco di sterpi, e furono gettate erbe seccate nel fuoco. Beatrice osservava, felice, la gente che la festeggiava. Guardando nel fuoco, tra le fiammelle le sembrò di scorgere la corte imperiale, le corse di bambini, un principe biondo in un castello davanti al mare. Si sentì di nuovo tranquilla: la primavera era lontana, si, ma sarebbe comunque arrivata, e con lei il futuro, il bambino, l’amore di Federico.

Sentì ad un tratto un rumore di cavalli, e prima ancora di vedere la sagoma dell’imperatore, alto e bellissimo a cavallo, sentì Federico esclamare: Villa Regia, eccomi!